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Da quando ho iniziato a muovermi per le strade di Damasco, osservando e facendo parte del caos automobilistico, ho subito notato che c’era qualcosa che non andava, un tassello mancante nel traffico sconclusionato della capitale. La varietà dei mezzi di trasporto, dal calesse all’happy bus, dal cavallo all’asino, greggi di pecore gatti spelacchiati e cani randagi, le limousine e i veicoli vintage, nulla apparentemente sembrava mancare, eppure, i conti non mi tornavano. Fino a quando che… ecco! mi sono chiesta: dove sono finite le donne in bicicletta? Nel traffico anarchico della capitale, tra motori in fiamme e autisti impazziti, signore velate, donne ninja o ragazze moderne attraversano la strada senza guardarsi attorno, si incastrano come meglio possono nei sedili posteriori dei tassì, guidano macchine di classe senza un pizzico di educazione o entrano silenziose nei mini service beneficiando della galanteria maschile che giammai le priva di un posto a sedere. Le biciclette a Damasco sono mezzi fatiscenti e primitivi il cui monopolio è esclusivamente maschile. Colorate, arugginite, presidenziali, costellate di bandierine e lucette intermittenti, sotterrate dalle merci più bizzarre, le due ruote non smettono mai di stupire, eppure, le donne non si azzardano a pedalarle.
L’altro giorno, tra un bicchiere di birra e esercizi di socialità, il discorso viene a galla e mi ritrovo a discuterne con Sara, un’amica americana, che dopo aver conosciuto una signora siriana che tutti i fine settimana porta la sua bicicletta in campagna per pedalarla lontana dagli occhi arrapati maschili, ha un’idea in tasca: una biciclettata al femminile per le strade di Damasco. Lo stupore si legge nelle facce dei nostri interlocutori locali che iniziano a boccheggiare di fronte a tale proposta.
Si deve sapere che la bicicletta, in una società sessualmente repressa come quella araba, rappresenta l’emblema dell’erotismo. Tutto nasce dalla natura del sellino, dalla forma bombata che termina con una protuberanza arrotondata, che ci riporta inevitabilmente alle origini della specie associando il comodo accessorio all’organo di riproduzione maschile. Una donna che osa cavalcare ciò che è di dominio maschile per strada sotto gli occhi di tutti deve essere per forza una prostituta, per questo non se ne vede neanche mezza. Le gambe femminili in un inarrestabile movimento, l’esposizione della coscia nell’atto della pedalata guidata dal movimento rotatorio del sedere e la posizione leggermente inclinata verso il manubrio, ci porta ovviamente a ricordare la donna nel momento intimo dell’atto sessuale. Quale marito o fratello lascerebbe mai esporre la propria moglie o sorella alla mercè delle fantasie sessuali della comunità maschile? Ovviamente nessuno. Per questo la donna in bicicletta è tabù. E per questo i nostri amici, per quanto liberali siano, rimangono attoniti e farfugliano risposte insensate.
Eppure, c’è una ragazza in città che ha rotto le regole e che si muove sempre e ovunque in bicicletta. L’ho conosciuta, e le ho stretto la mano. Complimenti. Catalana, giovane e attraente, mi racconta com’è la vita su due ruote. Il traffico fa paura, e si sa, la pericolosità è un’altra ragione per cui le donne arabe, fragili e disattente, non pedalano. Ma naturalmente la donna che possiede poteri sovrafemminili non sfugge agli occhi di nessuno. Il traffico si blocca, laddove la nostra eroina schizza tra veicoli impazziti si apre un varco, la cristallizzazione del sogno erotico maschile rende imbecilli tutti quanti. Ma anche incontrollabili e razzisti. Gli insulti che riceve sono all’ordine del giorno, così come ha imparato a scalciare quelli che vanno completamente fuori controllo, chi le si attacca alla camicetta o chi la rincorre fino a svenire dal fiatone. Perchè Mariam pedala veloce e sfugge a tutto e a tutti.
Assieme a questa perla rara Sara ha deciso di portare a termine il suo progetto e formare un gruppo femminile di cicliste. Una volta alla settimana, le eroine pedaleranno in nome di una rivoluzione femminile che nessuno ha mai preso in considerazione. Non sarà facile, ma qualcuno dovrà pure iniziare. E in una società che corre contro corrente, la donna in bicicletta contribuirà a soffiare, lentamente e con scandalo, la lancetta del tempo verso la Mecca.

Dima ha 26 anni, è siriana ed è lesbica.

Ogni volta che la incontro a casa di amici o alle feste si ripete sempre la solita vecchia storia: a mezzanotte in punto inizia a ricevere telefonate minatorie dal fratello e entro breve saluta tutti e se ne va.

Così sono gli ordini, non c’è nulla da fare.

Di famiglia benestante, Dima vive in un appartamento moderno e lussuoso con la madre e il fratello maggiore di 28 anni. Il padre vive e lavora ad Aleppo mentre il fratello più giovane, di 23 anni, è in servizio militare.

Fin da piccola Dima si è sempre considerata alla stregua di un bambino: passava il suo tempo libero a giocare per strada con i maschi e andava in fibrillazione davanti alle ragazzine del quartiere. Per Dima, portare gli amori in casa è sempre stato un gioco da sorelle e quando ce lo racconta ride a crepapelle prendendosi gioco della famiglia.

Nella cultura mediorientale, il rapporto tra donne è intimo e silenzioso quanto rispettato dalle parti maschili; è impossibile agli occhi di un esterno individuare quando l’amicizia oltrepassa il confine, soprattutto se quegli occhi appartengono a una cultura bigotta per cui nessuno osa prendere l’omosessualità in considerazione. Com’è ovvio, Dima non ha mai confessato la sua natura ai familiari, e anche se lei sostiene che la madre e il fratello abbiano dei sospetti, nessuno ha mai provato a rinfacciarglielo e l’argomento è semplicemente tabù.

La famiglia di Dima, per quanto musulmana liberale sia, è assolutamente piena di contraddizioni e ingiustizie. Ogni sera Dima è obbligata a tornare a casa entro l’ora che decide il fratello e per nessun motivo al mondo può dormire fuori, ma se per caso le capita di passare la serata con il fratello e i suoi amici, le è permesso di fare le sei della mattina. Oltre a ciò, il fratello è fidanzato da cinque anni e da cinque anni porta la sua ragazza in casa e dorme con lei. Ogni volta che Dima e la madre li lasciano soli, prima di rientrare in casa è di prassi accertarsi che la coppia non si trovi in flagrante. Nonostante la duratura relazione, il fratello considera la propria ragazza una semplice compagna di letto, che mai al mondo sposerà in quanto non vergine.

 

Quello che è successo questa notte non me lo scorderò mai.

 

Ci trovavamo a una festa in una casa intrappolata tra le vie della cittadella; la musica era alta, la gente apparentemente continuava ad arrivare e Dima era in bagno quando il fratello la chiama per la prima volta. E poi la seconda. E subito dopo la terza, insistentemente. Alla quarta, uscita dal bagno, Dima risponde. Quando mette giù il telefono scoppia in lacrime: Vuole che torni a casa entro l’una e che gli compri delle birre. L’ho mandato a quel paese, questa volta non ho intenzione di tornare a casa finchè non ne ho voglia io.

Le telefonate non cessano, iniziano le minacce e Dima smette di rispondere. Essendo la situazione in casa particolarmente delicata, da qualche settimana a questa parte Dima non torna mai a casa da sola e Lisa, un’amica tedesca che abbiamo in comune, normalmente si offre di dormire da lei. Questa sera però Lisa non si presenta alla festa nè risponde al telefono. Quando capisco quanto Dima è terrorizzata all’idea di rientrare sola, decido di accompagnarla. Durante il tragitto in taxi riceve un’ulteriore telefonata dal fratello che, una volta saputo che nessuna birra arriverà a destinazione, si imbestialisce e inizia a urlarle dietro. Quando entriamo in casa, la madre sta guardando la televisione e il fratello si sta lavando i denti in bagno, io saluto timidamente prima che Dima sbatta la porta della camera per poi chiuderla a chiave. Dopo qualche secondo, il fratello chiama Dima. Ti devo parlare. Dima si accende una sigaretta e lo ignora. Dopo dieci minuti esce dalla stanza e va in cucina a prendere dell’acqua fresca. Quando sta per rientrare in camera, il fratello la prende per un braccio e la blocca. Io sono seduta sul letto, vedo perfettamente la scena: il corridoio, il bagno sulla sinistra e la camera del fratello di fronte. Iniziano a discutere animatamente. Ti odio, odio tutti voi e non vedo l’ora di andarmene da questo paese per non rivedervi mai più.  A quel punto il fratello la prende e la trascina con tutte le sue forze, Dima oppone resistenza inutilmente, spariscono dalla mia vista oltre la porta della camera del fratello che si chiude in un tonfo sinistro. Dopodichè, è l’inferno. Dima inizia a urlare come una pazza isterica e a quel punto vedo la madre entrare in camera. Io rimango pietrificata sul letto, incapace di muovere un dito. Quello che le mie orecchie sentono danno vita a immagini di cruda violenza che mi fanno tremare dalla paura. Dall’altra parte del muro, sento altro che urla e pianti e botte e le uniche parole che riesco a decifrare sono quelle di Dima che prega il fratello di smetterla. Non ricordo quanto tempo sono stata seduta su quel letto, con lo sguardo perso nel vuoto e un frullato di pensieri che mi fracassavano la testa. Ma a un certo punto, anche l’essere più debole smette di sopportare e passa all’azione. Non importa se inutile, stupida o coraggiosa. Quando è troppo, il sangue bolle dentro le vene e la rabbia guida i movimenti. Così è: mi alzo ed entro in camera del fratello e vedo con i miei occhi Dima subire letteralmente delle frustate gratuite. Un’essere indifeso che si dimena sul letto, la madre che la tiene ferma mentre il fratello la picchia con una cintura in pelle. E’ un attimo che mi pare un’eternità, e quando mi riprendo mi trovo faccia a faccia con il fratello che mi ordina di andarmene a casa mia. Io non ho nessuna intenzione di lasciare Dima in quell’orrore nè di prendermele da quel bastardo, quindi decido di chiudermi in camera e di aspettare. Inizio a provare un profondo senso di colpa per non essere stata capace a fermarlo. Quando il fratello decide di passare ai coltelli da cucina, a quel punto la madre per la prima volta gli ordina di smetterla e Dima si rifugia in camera. Quando la vedo in quello stato comatoso, sanguinante e con un’occhio tumefatto, non riesco a trattenermi e scoppio a piangere. Piangiamo assieme. Nel frattempo dall’altra parte della porta il fratello calcia e tira pugni e ordina di aprire. Decidiamo di chiamare la polizia senza successo. Chiamiamo tre volte: la prima non rispondono, la seconda ci dicono che se l’aggressore è il fratello non sono autorizzati a fare nulla; la terza richiamiamo: Dima soffre a causa del dolore e vuole aiuto. risposta: chiamate l’ambulanza. Dunque chiamiamo l’ospedale, e la storia si ripete, quando scoprono che l’aggressore è il fratello ci dicono: spiacenti, non possiamo mandarvi l’ambulanza. Ma se volete potete prendere un taxi. Dima è sotto shock: nessuno che mi aiuti, ma dov’è la giustizia in questo paese?

 

La storia di Dima rispecchia purtroppo una realtà comune a molte donne siriane e musulmane più in generale. I motivi d’onore sono la causa scatenante di una violenza domestica che vede come vittime donne prive di diritti elementari. Nel caso di Dima, l’onore violato è il rispetto verso le decisioni del fratello, ma i casi possono essere diversi: rifiutare di portare il velo, indossare abiti occidentali, avere amici appartenenti ad un’altra religione, uscire con ragazzi, rifiutare un matrimonio combinato, comportarsi in un modo considerato indipendente, passare un periodo di tempo lontano dalla famiglia e così via. E’ difficile fare una stima del numero di violenze contro le donne in questo paese: le statistiche non sono veritiere, i costumi e le abitudini scoraggiano le donne a denunciare gli abusi e i crimini spesso vengono fatti passare per incidenti. Molte donne preferiscono rimanere in silenzio, sentendosi in colpa o responsabili, principlamente perchè la società siriana le tende a incolpare in materia di moralità sessuale.

Valori tradizionali, leggi discriminatorie e un governo autoritario privano le donne di molti diritti legali e sociali basici. Il codice penale, il codice nazionale e il codice dello statuto personale (quel corpo di leggi che regola le relazioni familiari) stabiliscono che lo statuto delle donne è completamente in mano ai loro padri o mariti. Le tradizioni culturali rinforzano una struttura sociale patriarcale dettata soprattutto da gruppi islamici estremisti che influenzano fortemente le decisioni del governo.

La costituzione siriana, ratificata nel 1973, stabilisce pari diritti, libertà e doveri alle donne così come agli uomini. L’articolo 45 dichiara: “Lo Stato garantisce alle donne pari opportunità che permettano loro di partecipare attivamente alla vita politica, sociale, culturale ed economica..”. Nonostante ciò, non esiste nessuna legge che le tuteli da discrimanazioni di genere. Inoltre, il codice penale condona gli abusi contro le donne: violentare la propria moglie non viene considerato un crimine così come alle donne viene negato il diritto di ricorso legale. Il 2 luglio 2009, con un decreto legge del Presidente Bashar al-Assad viene abolito l’articolo 548 del codice penale che prevedeva una pena massima di un anno per i delitti d’onore. “Persino il mufti di Stato, Ahmad Badr al-Din Hassun, ne aveva chiesto l’abolizione” riporta l’Osservatorio Iraq, “affermando che l’onore è un fatto di valori e di morale e non un movente per uccidere”. “Grazie all’abolito articolo, lo scorso anno la Siria si è piazzata al quinto posto nel mondo per la diffusione dei delitti d’onore, e al quarto nei paesi arabi. Purtroppo non spariscono le circostanze attenuanti, ma si inaspriscono le pene: ora la condanna non potrà essere minore di due anni.” Ridicolo. E ancora di più se si guarda ai fatti: nella pratica le pene sono molto più blande di quello che sta scritto su carta e com’è di prassi, con una buona dose di mazzette in tasca, molto spesso gli assasini se la passano liscia.

Purtroppo non esistono organizzazioni private o governative che provvedano assistenza alle vittime di abusi domestici; le uniche a fare qualcosa sono sporadiche associazioni religiose che, anche se limitatamente, offrono rifugio, consulenza, aiuti legali, servizi sanitari e riabilitazione. Ciononostante, a causa della mancanza d’interesse da parte dello Stato a tale problema, un ingente numero di vittime di violenza familiare non ha accesso al benchè minimo aiuto.

Riporto l’abbandono ufficiale del tetto cristiano per la vita nel campo d’azione, lontano dalle comodità della vecchia città, l’inglese che mi distrae e i prezzi alle stelle.

Lo spettro di Abu Musa, che fino a qualche giorno fa mi chiamava giornalmente da Palm Spring per aggiornarmi sulla sua vita mondana in california, e l’eterna lotta contro l’ennesimo scarafaggio mi hanno convinto definitivamente a raggiungere il gruppetto di amici che da circa una settimana ha trovato casa a Yarmuk. Come se non bastasse, coincidenza vuole che il giorno seguente il connazionale in calzamaglia, ovvero mensieur le siculo, trovasse accogliente dimora esattamente nell’appartamento sopra il nostro, con tanto di terrazzina con vegetali, che culla i miei momenti di malinconia da astinenza a luoghi a cielo aperto. Fatto il vicino, porto il valigiame in quello di Yarmuk per riposare le ultime settimane di residenza nella repubblica. A Yarmuk c’è tutto e di più: il micio entra in casa, il vicino ci saluta dal terrazzo e al mercato ti tirano addosso la frutta e la verdura di stagione, da quanto è conveniente e succulenta.

Yarmuk (dal nome di un affluente del fiume Giordano nonchè titolo di una battaglia risalente al lontano 638 tra forze arabo musulmane contro quelle bizantine), considerato campo non ufficiale, ospita la più larga comunità di rifugiati palestinesi in Siria e si trova a 8 kilometri a sud di Damasco. Un’insegna maestosa recita all’entrata “Campo di Yarmuk” ma una volta messo il naso dentro ci si rende conto che di campo c’ha poco o nulla, e dal 1957 – anno in cui le prime tende sono state piazzate – le cose sono decisamente cambiate tanto da renderlo un quartiere come un altro, con tanto di scuole (28), ospedali (4) teatri, una piscina (ovviamente solo per uomini), giardini, centri culturali, vita notturna e un numero crescente di stranieri che vi emigra. Negli anni, le condizioni di vita sono migliorate e oggi il campo è sovrappopolato delle più veriegate specie di rifugiati, le strade – strette come delle calli al confine tra la venezia dalla marea bassa e i quartieri spagnoli – sono coperte di cemento e monnezze a cui com’è di rito ogni tanto gli si dà fuoco, costellate di negozi di ogni tipo che non chiudono mai prima delle due di notte (soprattutto quelli la cui moda dalle vetrine ti prende a pugni negli occhi) e i cui collegamenti col resto della capitale non dormono mai.

Quanto alla nostra casa non si può dire che sia un gioiello ma la compagnia fa il resto e la differenza. Residenti: rifugiato palestinese da Gaza, rifugiato palestinese da Baghdad, cittadino americano, la mezza francese e la mezza spagnola (che corrisponde ad una unità femminile dal nome maria), dunque la sottoscritta. Gli scontri culturali che fanno incendiare le maniere europee sono inevitabili, ed io e la mia fidata, unite nel potere femminile contro la cocciuta resistenza maschile ci facciamo valere. eccome. La poltroneria porta i nostri cari rifugiati di casa ad ignorare il principio elementare basico, ovvero il rispetto e la salvaguardia dell’energia. Lasciare quattordici luce accese mentre si è in casa è di prassi, così come quando si esce almeno due devono rimanere in funzione. per quale motivo? risposta, rullo di tamburi, perchè così quando si torna a casa si vede. Buuuu. State scherzando? esiste un interrutore in entrata che genera luce. vi sembra così impossibile? mi rifiuto di riportare le scuse che mi sorbisco. Purtroppo si tratta di abitudine, e l’abitudine è difficile da perdere. Ricordo mio padre quando ai tempi cercava di inculcarmi il vizio di spegnere qualsiasi lucetta anche solo per andare dalla camera al cesso. Siamo convinte che nna bella lezione serva anche a chi ha avuto la sfiga di vivere nel deserto con gli scorpioni senza speranza di uscirne per mesi. E la televisione, la televisione vista per noia che non ha alcun senso. Una battaglia dura da vincere, ma che teme i nostri nemici. Poi ci sono i fastidiosi problemi tecnici legati alla pigrizia innata degli arabi, quelli con cui si vive e quelli con cui si deve fare i conti, vedi padrone di casa e agente immobiliare che gratta le ascelle, un mix di quelli di fronte al quale vorresti solo spararti (si oggi lo facciamo, no dai domani sicuro, inshaallah dopodomani, e dopo una settimana senza alcun risultato dalle opere di persuasioni passiamo alle persecuzioni). Problemini quotidiniani che hanno causato acqua alta nel cesso (una goduria invidiabile al più smarso dei parchi acquatici) e mancanza di acqua per circa ventiquattore, di quelle in cui boccheggi e non ti allontani dal raggio di azione del ventilatore per nessuna ragione al mondo. Se nel primo caso abbiamo sguazzato nel cesso per un’intera settimana controllando gli sforzi di vomito, nel secondo la salvezza si chiama sicilia, una rampa di scale di pellegrinaggio e la richiesta di asilo per doccia ci è stata data. Della serie Friends made in palestine, con l’unica differenza che donne ninja si muovono misteriose nel palazzo e noi si rispetta col salam ua aleikum prima di strimpellare sul tetto.

vista su malula dal monastero di santa tecla, il tramonto e la madonna all'orizzonte

vista su Malula dal monastero di Santa Tecla: il tramonto e la madonna all'orizzonte (la copia tascabile del Cristo Redentore di Rio)

la gola di malula: la leggendaria via di scampo scavata per acque o per miracolo, che dir si voglia

gola di Malula: la leggendaria via di scampo scavata per acque o per miracolo, che dir si voglia

sweet home malula

sweet home Malula ossia la casa del puffo

la via per damasco

la via per damasco

"prendete e mangiatene tutti"

"prendete e mangiatene tutti"

Una volta arrivati alla stazione di micro bus di Karajat mi sembra di avere un’ulteriore allucinazione, mettendo seriamente in dubbio la mia capacità d’intendere sotto il sole di mezzogiorno. Super Mario – che l’ultima volta pensavo di averlo avvistato tra le calli veneziane nello scorso carnevale – dal baffo abbondante e dalle sopracciglia sull’attenti, il cappellino rosso con visiera e l’occhiale moderno, ci guarda storto per poi scoppiare in una ridondante risata: Maaaaaalula?? Era da settimane che volevamo andare a far visita a questo villaggio – un’oasi incastonata in una stretta valle ai piedi di una montagna nel mezzo del deserto (il che lo giuro non è una minestra di termini geografici) – senza tuttavia riuscire a metterci d’accordo (in perfetto stile mediorientale). Il tragitto in service, 50 lire per 50 minuti, si tramuta in uno spasso: il nostro autista ci intrattiene con le sue barzellette e le maledizioni rivolte ad autisti incapaci, mentre nel frattempo il mio cervello lentamente torna a ricevere ossigeno pulito e il colore del cielo si tramuta velocemente da bianco a blu. Una volta entrati a Malula, il service di Super Mario tossisce nell’arrancare verso la direzione del convento di santa Tecla, addossato alla perete rocciosa che scende verticale sul villaggio, dove scendiamo e in cui ci rifugiamo per divini momenti di frescura. Il monastero ospita le reliquie della suddetta santa, una dei primi martiri cristiani, la cui leggenda racconta che, inseguita dai soldati inviati per ucciderla a causa della sua fede, si trovasse a un certo punto circondata senza più via di scampo nei pressi della parete scoscesa. A quel punto, Tecla pregò Dio di aiutarla e – ovviamente per miracolo! –  si aprì un varco nella roccia che le consentì di fuggire. La cosa più affascinante da visitare a Malula è senza dubbio la leggendaria via, un canyon stretto e profondo scavato nella roccia dalle acque che scendono dall’altopiano (anche se oggi, vista la stagione, più che di acque si può parlare di un rigagnolo evanescente..). Il canyon, che percorriamo per ben due volte con tanto di sosta birretta e panino, finisce in braccio a un bivio da cui spunta un campo di ciliegi che attirano immediatamente la nostra attenzione. Gli alberi letteralmente saturi di ciliege mature, fanno scattare in noi il repellente bisogno di addentarle prima che i meravigliosi frutti se ne vadano in pace con santa Tecla. Le vie di scampo dall’ingordigia sono due: addentrarci attraverso un buco nel muro grande come il mio bacino, o scavalcare il pericoloso filo spinato che però a metà campo finisce, lasciandoci via libera. Mentre discutiamo sul da farsi – senza nessuna richiesta di miracolo – spuntano quattro giovani indigeni a cui decidiamo di rivolgerci per fare gli onesti ingordi. Dopotutto, si tratta di un mazzo di ciliege, mica chissà cosa. Il più abbondante dei quattro dopo averci fatto sapere che dei padroni non c’è traccia, prende in mano la situazione e salta dall’altra parte del campo tornando indietro con la maglietta stracolma di ciliege rosso porpora. Quando cerchiamo di offrirgli una piccola mancia, ci manda a quel paese con gentilezza, intonando il solito ahlan ua sahlan. Raggirando ad anello la montagna scendiamo verso il vecchio e grazioso villaggio di Malula, in cui ci addentriamo con l’intenzione di perderci, cosa che ci riesce subito benissimo. Dalle case gialle pericolanti e dagli infissi blu trapela una strana melodia: il suono dell’aramaico, una lingua semitica che vanta 3.000 anni di storia. Gli abitanti di Malula, Jabadin e Baka (due villaggi limitrofi), cattolici di origine greca, sono gli unici al mondo a parlare ancora la lingua di Cristo.
Il ritorno verso Damasco lo facciamo in sella dell’happy bus, un autobus da 25 posti a sedere scassatissimo e coloratissimo sia negli interni che negli esterni. Ad occupare i due sedili anteriori e un quarto del corridoio sono quasi una decina di casse di albicocche appena raccolte pronte per essere vendute nella capitale. Al nostro autista, troppo indaffarato a raccontarsela in aramaico coll’amico di turno, non sembra importare che a quasi un quarto dei suoi passeggeri gli tocca fare il tragitto in piedi attacati via a mainiglie di fortuna. Per scusarsi dell’inconveniente offre albicocche a tutti i passeggeri, e dal primo all’ultimo ci gustiamo il succo di questi frutti gettando il rimanente fuori dai finestrini e lasciandoci dietro lungo la superstrada Aleppo-Damasco una distesa di noccioli roteanti.

Era da un pò che volevo dedicare qualche riga all’avventura personale e spassosa che ho avuto modo di vivere all’ufficio immigrazione di Baramke, nuova Damasco, una settimana e mezza fa. Credo che l’idea mi sia passata per il cervello nelle più diverse e svariate situazioni (quando distesa nel parco una formica invisibile mi ha morsicato il sedere facendomi letteralmente saltare per aria, o quando spesso sono sul punto di perdere la coscienza per via del caldo asfissiante nei numerosi service senza finestre) ma il vero motivo che mi ha tenuta impegnata e lontana dalle sorgenti della rete è che Abu Musa non c’è più. Purtroppo Abu Musa è partito per Palm Spring, moderna e variegata cittadina californiana a tre ore e mezzo di macchina da come la chiama lui Lus Angelus, dove due dei suoi sei figli vivono e lavorano. Era da un mese che Abu Musa mi sventolava in faccia il biglietto aereo (provocando in me momenti di malinconia e tristezza), e da tre settimane che ogni giorno si recava al mercato per comprare almeno un regalo da portare ai familiari a Palm Spring. Una settimana e mezza prima della sua partenza, la valigia stava già parcheggiata fuori dalla sua stanza e ogni tanto incontravo il mio nonnino frugarci all’interno e cacciar dentro oggetti inutili. Ad ogni modo, al tempo che mi recai all’ufficio immigrazione Abu Musa non si trovava ancora in qualche spiaggia californiana in boxer floreali e bandana – grazie a dio – e per l’ennesima volta mi salvò il sedere. Vista la fama che gira attorno a questo ridicolo punto d’incontro con la burocrazia siriana, in qualche modo mi presentai prevenuta: una dozzina di fototessere in tasca e tre quattro francobolli. Pensavo di fare la grande e grossa e cavarmela in cinque minuti. E invece col piffero. L’ufficio immigrazione non è altro che uno zoo per poliziotti dove all’incirca un centinaio di dipendenti vengono fatti incastrare in qualsiasi inutile spazio. Ognuno di loro è dotato di zero voglia di lavorare, cinque pacchetti di sigarette e cinquanta centimetri quadri di perimetro disponibile entro il quale muoversi, fumare e ronfare. Il primo poliziotto della serie che ho avuto l’onore di incontrare è l’uscere. Come lui, esistono altri cinque usceri che si cambiano di turno; il loro lavoro consiste nel leggere agli analfabeti degli occidentali che hanno la sfiga di dover passare di lì il cartello che sta di fronte all’entrata, che descrive quale ufficio si trova in quale piano. Io, sapendo leggere l’arabo, capisco, seppur con certa lentezza, in quale direzione muovermi, ma evidentemente l’uscere di turno improvvisamente investito di una grande voglia di lavorare, mi urla dietro, mi ordina di fermarmi, di fare retrofront per poi chiedermi: dove deve andare? Dunque mi spiego per sentirmi dire, come già sapevo, terzo piano, ufficio rinnovo visti. Al terzo piano, mi devo far spazio tra la nube di fumo che stagna nella sala. Alla mia scrivania, presenti sette dipendenti. Chi sopra l’uno, chi in braccio all’altro, chi mezzo fuori dalla finestra, chi russa, chi impreca contro un computer di vecchia generazione. Mi faccio largo tra indigeni che dormono al posto di fare la coda (perchè se in italia la coda è un’invenzione che non viene tuttora contemplata, in Siria è roba che non sta nè in cielo nè in terra) e cerco in qualche modo di attirare l’attenzione di almeno uno dei sette. Una volta ottenuta, gli porgo l’ambaradan di documenti e aspetto, lo guardo, mi guarda, mi chiede: Dov’è il contratto? Quale contratto? Contratto d’affitto. o Merda. Dico che non ho nessun contratto. Allora dov’è il tuo padrone di casa? Si sta facendo gli affari suoi rispondo. Chiamalo. Dammi un telefono se vuoi che lo chiami. Non abbiamo nessun telefono. Azzz! Dunque lo chiamo e lo faccio parlare col settimo nano il quale lo convince a passare per l’ufficio. L’ora sucessiva la passo all’ombra di un albero assieme ad altre venti persone aspettando Abu Musa. Quando lo vedo all’orizzonte, tra un pò non gli salto in braccio dalla felicità. Torniamo dal settimo nano, Abu Musa si mette a scrivere una letterina di contratto con tanto di impronta digitale, compro il modulo per 100£s. Ora scendete in strada, a sinistra, poi a destra la prima porticina verde a destra nell’ufficio x. All’ufficio x un signore ci ritira i moduli e i passaporti e compila il modulo per noi. Della serie, non sappiamo scrivere. Torniamo dal settimo nano. Un timbro. Poi: quarto piano, a sinistra. Un timbro. Dal settimo nano, una firma. Poi, inaspettatamente, mi mandano nell’ufficio del sultano: aria condizionata e otto metri quadri di poltrone in pelle e tv a tutto volume. Questo deve essere un pezzo grosso. Mi fa una firma, guarda il mio passaporto, lo apre al contrario, cerco di aiutarlo, quasi fa l’offeso. Poi ride: italia! e per farmi sentire a casa mi elenca la nazionale italiana. Mi trattengo dal fargli sapere che odio il calcio. Torniamo dal settimo nano che ormai ci dà il benvenuto. Una sigaretta? no grazie, tossisco da quando ho messo piede qui dentro. Posso andare a casa? Non ancora, tornate al quarto piano. Ormai Abu Musa ci ha fatto l’abitudine e sale le scale spedito. Vai di qua, no di là, ma va là. Impreco. Quanto ancora? Halas. Fine della storia. Timbro finale e benedizione. Andate in pace. Abu Musa si fa il segno della croce.

padre casalingo

Quando arriviamo a casa di A.M. non c’è nessuna donna velata a preparare il consueto tè per gli ospiti e i figli del nostro ospite aiutano il padre ad accomodarci tra giochi e sgommate col treciclo. Notiamo subito che il più piccolo ha il piede destro semi addormentato e per questo zoppica.
La trapelata vicenda di A.M., palestinese iracheno sposato con una donna sciita irachena e padre di due figli (di sette e quattro anni), ha inizio il mese di ottobre 2006. Al tempo, la sua famiglia era stabile (illegalmente) a Damasco, quando improvvisamente la suocera di A.M., residente a Baghdad, si ammala gravemente tanto che la moglie decide assieme ai figli di tornare in patria con la promessa di tornare dopo due settimane. Allo scadere dei due mesi dalla loro separazione A.M., evidentemente preoccupato per la sorte della sua famiglia, parte per il suo paese natale dopo aver ricevuto una chiamata dai parenti della moglie invitandolo a rientrare. Appena arrivato in casa dei suoceri, i famigliari di lei iniziano a fargli un lavaggio del cervello in cui gli viene detto che se non si deciderà a divorziare immediatamente dalla moglie, lei e i bambini verranno uccisi. Nei giorni seguenti inizia a ricevere minacce scritte e verbali da esponenti dell’Esercito del Mahdi e i parenti della moglie gli impediscono letteralmente di portare i suoi figli a visitare i nonni paterni. Preso dal panico, inizialmente pensa di rivolgersi al tribunale ma quando scopre che è di prassi che i giudici vendano i casi palestinesi alle milizie sciite (per la cifra ridicola di 100$, meno di una capra!) decide di rivolgersi allo Sceikh della moschea il quale gli conisiglia di tornarsene immediatamente a Damasco. Dopo cinque giorni esatti dall’arrivo in Siria riceve una chiamata dai parenti della moglie che lo informano del fatto che la moglie sta divorziando. A.M. capisce subito che si tratta di una decisione forzata, che i tempi di attesa per ottenere un divorzio sono ben più dilatati e che questo è stato in qualche modo manipolato. Quando riceve la lettera di divorzio scopre che l’avvocato che ha concluso la pratica è una donna sciita che risponde al nome di Jinam al Maliki (molto probabilmente imparentata col capo di governo) famosa per la sua natura razzista e per offrire prestazioni gratuite a clienti sciiti che vogliono divorziare da sunniti e palestinesi in particolare. Dopo quattro mesi dal divorzio, A.M. riceve una telefonata dalla moglie che, apparentemente pentita, gli chiede di tornare a Baghdad. Al telefono parla anche col figlio più grande senza tuttavia riconoscerlo: risponde a monosillabi, fa discorsi sconnessi e sembra terrorizzato. Dopo la telefonata, A.M. parte immediatamente. Una volta arrivato a Baghdad scopre che il figlio più grande, informato della falsa morte del padre, veniva tenuto in una delle stanze della casa senza il permesso di uscire. Che la moglie nel frattempo si era risposata e che i nonni materni stavano facendo di tutto pur di prendersi in custodia i nipoti per cambiare il loro cognome con quello della madre, visto quanto un nome palestinese porta vergogna in una casa sciita. Non potendo fare letteralmente nulla, A.M. decide con grande dolore di tornare a Damasco. Solo, senza lavoro e perdipiù illegale accetta la proposta di andarsene al-Waleed dopo essere stato informato di un imminente rimpiazzamento in Sudan per i profughi residenti. Si dirige al campo di al-Waleed con un barlume di speranza e ci rimane per quattro mesi. Nessun Sudan in vista. Per questo torna a Baghdad, il terrore che gli impedisce di dormire è sotterrato dal bisogno di protezione; come padre, è pronto a rischiare la vita per riprendersi i suoi bambini. in Iraq cambia identità e si procura un passaporto falso iracheno per la modica cifra di 1.200$. Al suo arrivo lo attende una lettera dalla moglie in cui si esime dalla custodia dei figli. Dopo qualche giorno, il figlio più piccolo inizia a soffrire di crampi alla pancia. Quando i dolori iniziano a farsi sempre più forti, a Baghdad vige il coprifuoco, e nonostante la pericolosità che ciò comporta, il padre decide di portare il figlio alla guardia medica per poi sentirsi dire che è il caso di andare all’ospedale. In strada non c’è nessuno, e al primo check point che incontra gli americani e le unità swap del MOI non gli sparano solo perchè correndo sventola bandiera bianca e mostra la sua creatura. Una volta ai controlli, gli viene chiesta la sua identità ed è così che il destino del suo bambino verrà segnato a causa della maledetta identità. Le unità swap decidono di scortare A.M. e il figlioletto all’ospedale, ma una volta qui, prima che il piccolo entri in sala operatoria, ha luogo una sinistra conversazione tra i medici e la polizia irachena che tuttavia A.M. non riesce ad ascoltare. A questo punto il bambino viene fatto distendere sul lettino e sottoposto a una grande ingiustizia; il metodo con cui gli viene fatta la puntura non rispetta gli standard medici, la siringa viene iniettata perpendicolarmente e con violenza nella coscia, colpendo il nervo e paralizzandogli la gamba. Al ritorno dall’ospedale, il bambino è in stato di semi incoscienza, la febbre è alta e per questo A.M. decide di lasciare Baghdad immediamtamente e di portare i suoi figli a Damasco. Da quando sono arrivati qui il piccoletto ha subito un’operazione per il ricollegamento del nervo, ma ogni volta che vanno all’ospedale sono terrorizzati dall’idea di dover rivelare la propria identità. Il bambino deve utilizzare un tutore almeno per un tot. ore al giorno e per uscire può indossare solo scarpe morbide o ciabatte. Nonostante tutto ciò che potranno fare, avrà una disabilità permanente. Oggi A.M. si è risposato, ma la nuova moglie non riconosce i figli e ha fatto sapere al marito che se gli succede qualcosa i bambini finiranno in strada. Di professione A.M. faceva l’elettricista, ma le continue umiliazioni lo hanno portato a dedicarsi totalmente al lavoro di padre e casalingo.

il 12 maggio 2005 alle ore undici della mattina un’autobomba esplode in uno dei mercati più affollati e vivi della nuova Baghdad causando ingenti perdite. Dodici ore più tardi in un edificio interamente abitato da palestinesi fanno irruzione squadriglie che rispondono al nome di Brigata del Lupo e Brigata del Badr prendendo in ostaggio quattro civili palestinesi e un civile iracheno. Il giorno seguente sul canale nazionale Iraqiya vanno in onda durante il programma intitolato “Confessioni dei Terroristi” le immagini dei cinque ostaggi (con evidenti segni di tortura sul viso) confessando di essere statigli esecutori dell’attentato. F.M. porta in viso un buco causato delle botte ricevute con un fucile ak47 e sulle gambe i segni delle torture inflitte con cavi elettrici. La mattina dell’attentato F.M., proprietario di un negozio di succhi di frutta, si trovava in casa sua a spendere la luna di miele con la sua novella sposa, impiegata al ministero delle finanze, tanto da non aver nemmeno udito l’esplosione. Dopo l’arresto F.M. e gli altri quattro prigionieri vengono detenuti in prigione per un anno e due mesi, i primi tre dei quali vengono sistematicamente torturati notte e giorno e nei mesi seguenti lasciati letteralmente marcire spesso non ricevendo nè acqua nè cibo per quasi tre giorni di fila. Per insufficienza di prove vengono rilasciati in seguito a un processo che li dichiarerà innocenti. Nonostante il verdetto i cinque imputati e le loro famiglie ricevono sistematiche minacce e maltrattamenti dalla comunità sciita in primis e dai famigliari delle vittime tra cui molte di queste palestinesi rendendogli la vita impossibile e vedendolo costretto a lasciare l’Iraq. Dopo aver comprato un passaporto falso iracheno per lui e per la moglie, il 24 maggio 2006 arriva a Damasco e da allora si trova in un limbo illegale. Oggi F.M. ha due bambine, una di due anni e mezzo e una di dieci mesi. Mensilmente riceve una pensione dall’UNRWA di 6.000 lire siriane con cui si paga l’affitto e ogni tre quattro mesi un’altra di 400$, cifra che gli permette una stentata sopravvivenza. Per sbarcare il lunario, ogni tanto F.M. si impegna in piccoli lavori di restauro o di pittura ma molto spesso viene maltrattato dai suoi clienti che se ne approfittano della sua illegalità non pagandolo o offrendogli una miseria. Essendo detentore di un passaporto iracheno l’UNRWA non può occuparsi del suo resettlement (accomodamento, soluzione) nonostante la sua famiglia sia registrata e, essendo entrato in Siria dopo il 15 Aprile 2006, data in cui le autorità siriane hanno chiuso i confini ai profughi iracheni, l’UNHCR gli ha sbattuto da tempo la porta in faccia. Da quando è arrivato in Siria F.M. ha fatto di tutto pur di ottenere asilo politico inutilmente; l’unica ambasciata ad avergli dato un barlume di speranza è stata quella spagnola, che dopo più di un anno e mezzo di promesse gli ha risposto picche sparendo nel nulla. Per lui e la sua famiglia non c’è futuro in questo paese. Essendo illegali, lui e la moglie non possono avere un lavoro, e le loro bambine avranno accesso solamente alla scuola materna ed elementare dell’UNWRA, dopodichè, chissà. Oltre a ciò è costretto a vivere nell’anonimato, uscire di casa raramente e rigorosamente con un paio di occhiali e socializzando solo con i pochi familiari che vivono qui. Al tempo, l’attentato che gli ha costato il carcere e le torture fece il giro dell’Iraq e accattivò indistintamente la comunità sciita, sunnita e palestinese. Ora, alcuni famigliari delle vittime e molti esponenti della fazione sciita vivono nel suo stesso vicinato, rendendolo completamente paranoico soprattutto per l’indennità della sue creature.
Il nostro progetto si pone l’obiettivo di intercedere a livello diplomatico per F.M. e per tante altre famiglie di palestinesi iracheni residenti a damasco illegalmente, le cui storie non vengono contemplate dai registri dell’ONU e i cui futuri si prospettano più che bui e privi della minima speranza.

Migliaia di palestinesi provenienti dai villaggi attorno a Haifa e Yaffa si trasferirono in Iraq in seguito alla nascita dello stato d’Israele nel 1948. Ulteriori ondate migratorie di Palestinesi raggiunsero l’Iraq dopo la guerra arabo israeliana del 1967 e dopo la guerra del Golfo del 1991 quando altre migliaia di Palestinesi si videro costretti ad abbandonare il Kuwait. Nel maggio 2006, l’UNHCR stimava che il numero di Palestinesi residenti in Iraq, la maggior parte dei quali a Baghdad, raggiungeva le 34.000 unità.
L’agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNWRA) fu fondata nel dicembre del 1949 in seguto alla risoluzione 302 dell’Assemblea Generale, per dare immediata assistenza a tutti i palestinesi senza più dimora. Il suo mandato fin da allora è stato rinnovato regolarmente e l’agenzia continua a provvedere all’assistenza, tra cui educazione, salute e servizi di diverso tipo, a tutti coloro che vengono chiamati “Rifugiati Palestinesi”. Questi, vengono così definiti dall’UNRWA:

“persone il cui luogo di residenza era la Palestina tra il giugno del 1946 e il maggio del 1948, che persero entrambe le loro case e i mezzi di sostentamento come risultato del conflitto arabo – Israeliano del 1948… [la] definizione di rifugiato comprende inoltre i discendenti delle persone che divennero rifugiati nel 1948. Il numero dei rifugiati palestinesi registrati è cresciuto da 914.000 nel 1950 fino a più di 4,4 milioni nel 2005, e continua ad aumentare a causa della naturale crescita della popolazione.“

Il mandato dell’UNWRA tuttavia è limitato a quei rifugiati palestinesi che risiedono in Giordania, Libano, Siria, Striscia di Gaza e West Bank. Coloro che negli anni sono stati dislocati in altri paesi, vengono considerati rifugiati ma non rientrano sotto il mandato dell’UNWRA. l’Alto Commisariato Onu per i Rifugiati (UNHCR) è l’agenzia responsabile al provvedimento delle loro necessità.
I rifugiati palestinesi costituiscono la popolazione di rifugiati più estesa e più duratura del mondo in quanto tuttora rimangono senza alcuna prospettiva di soluzione alle loro difficile condizione. Virtualmente non hanno nessuna possibilità di ritorno alle loro terre e case, nonostate esista un diritto di rimpatrio contemplato dalla legge internazionale.

Prima dell’invasione statunitense in Iraq nel 2003, i palestinesi godevano di discreti diritti e la loro situazione era migliore anni luce rispetto a quella di altri palestinesi residenti nel vicino oriente: possedevano documenti di viaggio speciali e permesso di residenza, avevano diritto al lavoro e completo accesso a ogni tipo di servizio. Molti palestinesi vivevano in specie di case comunali fornite dalle autorità irachene e altri vivevano in case di proprietà privata il cui affitto era in parte sovvenzionato dalle autorità irachene.
In seguito all’invasione statunitense ha avuto inizio un’era in cui i palestinesi si sono visti vittime di continue violenze, sofferenze e sistematici abusi di diritti umani che raramente sono stati denunciati dalla stampa internazionale.
Immediatamente dopo la caduta di Baghad nell’aprile del 2003, i palestinesi iniziarono ad essere presi di mira da gruppi di milizie e soggetti a varie forme di maltrattamento, intimidazioni, rapimenti e uccisioni a causa della loro etnicità e perchè si presume abbiano ricevuto trattamenti privilegiati durante il governo Ba’ath capeggiato da Saddam Hussain. Da quando l’iraq è caduto nel caos e il conflitto settario tra sciiti e sunniti si è intensificato, i palestinesi sono diventati più vulnerabili poichè, a differenza delle comunità sciite e sunnite, non hanno mai avuto nessun gruppo paramilitare che li proteggesse o li difendesse in caso di attacco contro la loro comunità. Dall’inizio del conflitto molti palestinesi sono stati vittime di arresti arbitrari, detenzioni e diverse tipologie di torture dalle forze irachene e dalle Multi-Nation Force (MNF) col sospetto di essere coinvolti o di aver appoggiato gruppi insorti sunniti. I due più grandi blocchi politici sciiti, il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq (SCIRI) e i sostenitori politici e religiosi di Muqtada al Sadr hanno covato a lungo rancore per il trattamento privilegiato che i palestinesi hanno ricevuto prima del 2003. Le ali militari di questi due gruppi, rispettivamente l’esercito Mahi e le brigate Badr, sono stati e continuano ad essere responsabili in Iraq di evidenti abusi di diritti umani contro civili palestinesi.
A causa delle continue violenze in Iraq e dei persistenti maltrattamenti contro la loro comunità centinaia di palestinesi  hanno abbandonato le loro case per raggiungere le frontiere siriane. Il 15 aprile 2006 le frontiere siriane sono state chiuse e da allora nessun rifugiato palestinese è più potuto entrare. E anche chi è entrato si è visto alla fine gettato in campi dove le condizioni di vita sono estremamente precarie. Da quel momento in poi, nessun paese ha dimostrato volontà e interesse ad occuparsi di questi rifugiati.
Ad Amnesty International le autorità siriane hanno riferito che nessun palestinese è autorizzato ad entrare in Siria almeno che non sia di passaggio verso Israele o le aree controllate dall’Autorità Palestinese. AI ha più volte insistito per visitare due dei campi profughi che si trovano al confine ma si è vista rifiutare la propria richiesta trattandosi, secondo le autorità siriane, di un “territorio pericoloso”.
Esistono tre campi porfughi che ospitano rifugiati palestinesi al confine tra Iraq e Siria e questi sono amministrati dall’UNHCR:
– al-Hol è situato nella regione di Al-Hassak nel nord est della Siria e ospita 304 (*) Palestinesi, la maggior parte dei quali erano arenati al confine giordano iracheno prima di essere ammessi in Siria nel maggio del 2006. In questo campo il tema della sicurezza non viene contemplato. I genitori mandano i propri figli nelle scuole siriane vicine e sono costretti a fare visita a cliniche locali spesso lontane per ricevere trattamenti medici. Sono obbligati a stare nel campo la sera, ma durante il giorno si possono muovere all’interno della regione.

– al-Tanf si trova nella terra di nessuno al confine tra la Siria e l’Iraq e ospita quei 389 (*) palestinesi la cui richiesta di entrata è stata rifiutata dalle autorità siriane. Le condizioni di vita nel campo sono molto difficili, con temperature che arrivano ai 50 gradi d’estate e freddo becco d’inverno. Il campo si trova al lato di un’autostrada rendendolo altamente pericoloso, specialmente per i bambini. Secondo AI, recentemente un bambino è morto colpito da una macchina mentre giocava nei pressi dell’autostrada. Nel 2007 il campo è stato colpito da un forte incendio causato da una scintilla in un cavo elettrico. Tre palestinesi hanno riportato ustioni molto gravi e altri 25 hanno sofferto di ustioni minori e problemi respiratori.

– Al-Waleed si trova in territorio iracheno a tre kilometri dal confine siriano. Ha aperto nel dicembre 2006 e a inizio 2008 contava 1.550 residenti. UNHCR (giordania) amministra il campo, ma per ragioni di sicurezza può inviare membri dello staff solo raramente, molto spesso non più di una volta al mese. Secondo agenzie UN e umanitarie le condizioni in questo campo sono tra le peggiori dei tre. La maggior parte dei palestinesi soffrono di svariate malattie, tra cui i problemi respiratori sono i più comuni. Purtroppo, l’ospedale iracheno più vicino si trova a al-Qa’im, a quattro ore di macchina dal campo, e la strada che vi porta è spesso occupata da gruppi armati che attaccano chiunque osi passare. Il 24 maggio del 2007 una delegazione governativa irachena ha fatto visita al campo informando i residenti che nessun paese arabo si sarebbe preso la briga di occuparsi di loro e proponendo tre alternative: i rifugiati avrebbero potuto tornare nelle loro case a Baghdad con la promessa che il governo iracheno si sarebbe occupato di proteggerli; avrebbero potuto tornare a Baghdad aspettando che UNHCR si occupasse di trovare loro una sistemazione futura; infine, accettare la proposta da parte del governo iracheno di costruire un campo profughi nel quartiere di al- baladiyat a Baghdad in grado di ospitare almeno 750 famiglie. I palestinesi di fronte a queste parole ovviamente hanno rifiutato.
Per motivi di sicurezza è stato impedito alle organizzazioni umanitarie e alle agenzie UN di mantenere una presenza stabile nel campo di al-Waleed. La croce rossa internazionale e l’ONG italiana il Consorzio Italiano di Solidarietà (CIS) sono le uniche che riescono a distribuire aiuti umanitari al campo. Secondo alcuni palestinesi intervistati, al campo non c’è abbastanza acqua e cibo e quello che c’è arriva spesso già scaduto. Le temperature sono elevatissime d’estate, d’inverno la regione viene colpita da violenti tempeste di neve e come se non bastasse è infestata di animali pericolosi come serpenti velenosi e scorpioni.
Oltre alle evidenti difficoltà di accesso a cure mediche, la sicurezza è un problema che preoccupa ulteriormente i residenti. Apparentemente, forze di sicurezza irachene appostate vicino al campo spesso fanno irruzione per spaventare e intimidire con le loro visite, utilizzando un linguaggio abusivo nei confonti dei palestinesi e spesso portandosi via donne e ragazze.

Alcuni bambini del campo di al-Waleed intervistati da un giornalista della Reuters proponevano il dialogo con gli alieni per un futuro insediamento palestinese su Marte. Persino loro hanno capito che sulla Terra non c’è più spazio per i palestinesi, è bene guardare avanti e far sì che la speranza sia l’ultima a morire.

(*) suddetti dati sono almeno vecchi di un anno, mi scuso per l’incompetenza, provvederò al più presto ad un aggiornamento.

la svolta

La settimana trascorsa è stata scandita da incontri preziosi, riunioni fallimentari e una festa con piscina che non mi hanno lasciato un momento di respiro.
Annoto sul mio computer la cronaca passata mentre l’amaro souvenir del retrogusto dell’arak in bocca non si decide ad abbandonarmi.
Tutto è iniziato con Eugenia.
Eugenia è una ragazza messicana cattolica che vive a lavora a Brighton con una grande passione per le camminate. E’ arrivata in Siria da sola con l’obiettivo di farsi un pellegrinaggio da Aleppo a Damasco, dal nord al sud della Siria passando per i più importanti punti archeologici, storici, religiosi e naturali del paese, 25 kim al giorno di cammino, una tenda in spalla e tanta voglia di soffrire un caldo infernale. Ho conosciuto Eugenia una settimana e mezza fa a casa mia che se ne stava in un angolino all’ombra a ripetere l’alfabeto prima di entrare in classe. Ci siamo presentate e due cose mi sono rimaste impresse fin da subito: il suo nome (per fortuna non sono nata maschio..) e la sua faccia che mi ricorda incredibilmente un’amica della Cate che ha vissuto in Messico. Al nostro secondo incontro qualche giorno dopo le ho proposto una birra, un pò per solidarietà femminile verso individui del mio stesso sesso che approdano in questo paese senza sapere un’acca della lingua e poco o niente della cultura e un pò per la curiosità di una tale idea. Inutile menzionare la reazione degli indigeni di fronte a un simille progetto: donne, uomini, musulmani, cristiani, o atei non ho visto nemmeno una faccia non rimanerci di sasso. Basel, il nipote di Abu Musa, è da una settimana che sparge la voce tra la comunità cristiana di Bab Touma sperando di trovare qualche anima pia che si unisca a lei. Purtroppo gli arabi sono famosi per essere pigri e sedentari, l’idea generale è che il tuo mezzo di trasporto definisca il tuo status quo: se sei povero cammini e la paghi, e anche se non sei per forza ricco sfondato sei disposto a spendere 45 minuti della tua serata infilandoti in minuscole vie del centro storico per parcheggiare il suv che hai comprato con tutti i tuoi risparmi fuori dal ristorante dove porterai la tua dama di compagnia. Nessun cristiano sembra cogliere il reale valore del pellegrinaggio come momento di riflessione individuale, per non parlare del resto della comunità. Ho visto persone pregarla di non farlo, chi le ha donato uno spray micidiale d’autodifesa, infine il mio amico giornalista si è proposto di affibiarle degli sponsor e mandarle ogni sera un giornalista ad intervistarla per la rivista. Eugenia parte domani e a casa mia si parla di lei come un fenomeno da baraccone.
Il giorno che siamo uscite per una birra siamo finite tra le altre a fare le comparse per un film che giravano accanto al bar e da questi momenti di pura ilarità salta fuori che i contatti di Eugenia in città sono una sfilza di giovani che lavorano per unwra e unhcr. In meno di ventiquattr’ore senza rendermene conto vengo catapultata in una macchina sociale che a fatica tengo sotto controllo. Eugenia mi promette di introdurmi alla comunità e il giorno dopo alle sette e mezza della sera abbiamo appuntamento da Abu George con Ahmad.

Ahmad è un capitolo della storia intrecciata tra la Palestina e l’Iraq. Una mente di ragazzo cresciuto a Baghad, 27 anni e un livello d’inglese impeccabile, una laurea in scienze politiche, un passato come interprete ufficiale dell’esercito americano, nonchè parte dello staff dell’unhcr a Baghdad, che lo vede impegnato quotidianamente a raccogliere i cadavari per le strade di Baghdad e a portare avanti un progetto per il ricollocamento delle migliaia di profughi e vittime del conflitto. Dopo aver servito l’invasore per tutta la durata del conflitto come premio viene sbattuto in prigione per poco meno di un anno per la sola colpa di essere palestinese (di fatto solo di padre, che stabilisce l’appartenenza), bandito dal suo paese natale, arriva in Siria nel 2006 con un convoglio di trecento persone e rimane per quattro mesi nel campo profughi di al-Tanf (conosciuto col nome di no man’s land, la terra di nessuno, al confine tra la Siria e l’Iraq) famoso tra lo staff dell’UnHcr (i soli ad avere il permesso di visita) per spiccare nella top five dei peggiori campi profughi sulla faccia della terra. Grazie a insistenti telefonate e a una buona somma di denaro ottiene il permesso di residenza siriano della validità di giorni 15. Lo seguiranno nella RAS il fratello di due anni più giovane, la sorella di 17 anni, la madre e per ultimo il padre che muore dopo cinque giorni dall’arrivo qui in seguito alle torture subite per mano dei servizi segreti iracheni. Nonostante il permesso di soggiorno scaduto ma grazie alle sue conoscenza in materia Ahmad ottiene un posto di lavoro di prestigio (non d’ufficio, sia chiaro, ma di lavoro Sul Campo) presso unwra e unhcr a Damasco e realizza con amici registi e fotografi due documentari sulla situazione dei rifugiati iracheni nei campi profughi siriani. Oggi Ahmad ha lasciato il suo lavoro perchè ha smesso di credere nelle nazioni unite da quando ci ha messo piede (l’unwra in particolare, emblema della corruzione nel medio oriente e sfruttatrice delle idee di giovani attivisti che ci approdano come sola alternativa nell’orizzionte mediorientale) e perchè in fondo ha voglia di vivere. Nel frattempo porta avanti il suo lavoro come freelance per un progetto autonomo che si occupa di tutte quelle famiglie palestinesi provenienti dall’iraq e residenti illegalmente a Damasco. Da mercoledì inizierò ad aiutare Ahmad in questo progetto il quale, provando pietà per la mia frustrazione, mi ha proposto una collaborazione, per due semplici motivi: le famiglie sembrano più disposte a parlare in presenza di “personale” occidentale in quanto sperano di essere più ascoltati, così come la credibilità aumenta se a testimoniare ci sono cittadini europei. Domani mi aspetta un incontro nel pomeriggio per un full immersion training sulla situazione dei palestinesi iracheni dal 48 ad oggi, strettamente necessario prima di preparare delle domande e iniziare a fare le visite. Oltre ad avermi dato questa preziosa opportunità, grazie a lui e a Eugenia in primis sono stata introdotta in un variegato gruppo di giovani iracheni, palestinesi, americani, inglesi, italiani e quantaltro che amano la cucina, il divertimento, discutere sui massimi sistemi e organizzare feste. Ho deciso grazie a questa manna dal cielo di iniziare a fregarmene un pochino dell’unwra pur portando avanti un certo interesse nelle attività ad essa correlate e proponendo un cambiamento degli accordi. Dopo l’incontro di giovedì presso il field office con il coordinatore dei volontari ho avuto la conferma che questi non sanno che pesci pigliari e che ci fanno perdere altro che tempo. Il succitato Sami Safadi ha indetto un incontro per raccogliere proposte su progetti di foundraising, ma per tutto il tempo non ha fatto altro che appuntare sulla sua moleskine le nostre risposte alle sue inutili domande per poi darci degli sfruttatori delle nazioni unite con l’unico obiettivo di farsi l’esperienza per abbellire il curriculum senza portare i soldi alla mamma unwra. Non solo, dei ritardatari e privi di creatività. Credo che dal primo all’ultimo dei presenti, tutti abbiamo dovuto lottare contro il repellente istinto di un linciaggio pubblico contro il nostro leader. Nel frattempo alhamdulilah ho iniziato le trattative con Aicha per cambiare i piani, e ovviamente si è rivelato una questione lenta come la fame. Dopo più di due settimane dall’ultima delle tre mail che le avevo mandato ho ricevuto un feedback positivo e sono stata invitata a recarmi nuovamente al field office per cambiare le carte in tavola. Intendiamoci, si tratta di una virgola, di quattro parole del contratto che ho firmato, ma io dovrò spendere mezza giornata della mia vita per fargli usare la scolorina. Comunque, la mia prossima mansione sarà circoscritta all’interno delle attività ricreative per ragazzi nel campo estivo ad Husseinya. Volevo insegnare danza e mi hanno risposto ciccia, qui siamo conservatori. Quindi organizzerò un cineforum in inglese per far praticare a lingua. Si tratta di un procedimento all’interno degli standard dell’unwra (nb: ci ho messo sette mesi di corrispondenza per capire se mi volevano o no qui) quindi le prospettive di attesa sono poco lungimiranti. Aspetto. Questo weekend per pensare ad altro ho accettato l’invito a una festa che è stato uno spasso organizzata dagli amici, un susseguirsi di balli notturni e giri in giostra, falò barbeque e colazione con caffè in piscina. Ho smesso da una settimana di lamentarmi e finalmente mi sento bene.